Sullo scrivere, di Primo Levi

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E r a t o
» Posted on 2/9/2012, 21:36




CITAZIONE
Ringrazio la mia adorata Laica, che mi ha fatto conoscere questo saggio che mi ha letteralmente travolto (anche se, nel momento, dovevo studiare per l'esame imminimente!)

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1. Dello scrivere oscuro
Non si dovrebbero mai imporre limiti o regole allo scrivere creativo. Chi lo fa, obbedisce in generale a tabù politici o a timori atavici: in effetti, un testo scritto, comunque esso sia scritto, è meno pericoloso di quanto comunemente si pensi; il famoso giudizio su Le mie prigioni di Silvio Pellico, che avrebbe nuociuto all'Austria "più di una battaglia perduta", è iperbolico. Si constata sperimentalmente che un libro o un racconto, buone o cattive che siano le loro intenzioni, sono oggetti essenzialmente inerti ed innocui; anche nelle loro incarnazioni più ignobili (ad esempio, gli ibridi sessonazismo o patologia-pornografia) non possono provocare che danni scarsi, certo inferiori a quelli prodotti dall'alcool o dal fumo o dallo stress aziendale. Alla loro debolezza intrinseca concorre il fatto che oggi ogni scritto è soffocato in pochi mesi dalla calca degli altri scritti che gli urgono dietro. Inoltre, le regole e i limiti, essendo storicamente determinati, tendono a mutare sovente: la storia di tutte le letterature è piena di episodi in cui opere ricche e valide sono state combattute in nome di principi dimostratisi poi ben più caduchi delle opere stesse; se ne può dedurre che molti libri preziosi devono essere spariti senza lasciare traccia, essendo stati sconfitti nella contesa mai finita fra chi scrive e chi prescrive come si deve scrivere. Dall'alto della nostra epoca permissiva, i processi (veri processi, in tribunale) contro Flaubert, Baudelaire, D.H. Lawrence, appaiono grotteschi ed ironici come quello di Galileo, tanto grande appare oggi il dislivello fra i giudicati e i giudicanti: questi vincolati al loro tempo, quelli vivi per ogni prevedibile futuro. Insomma, dar legge al narratore è almeno utile.
Detto questo, e rinunciando quindi enfaticamente a qualsiasi pretesa normativa, proibitiva o punitiva, vorrei aggiungere che a mio parere non si dovrebbe scrivere in modo oscuro, perché uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio viene compreso e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche.
E' evidente che una scrittura perfettamente lucida presuppone uno scrivente totalmente consapevole, il che non corrisponde alla realtà. Siamo fatti di Io e di Es, di spirito e di carne, ed inoltre di acidi nucleici, di tradizioni, di ormoni, di esperienze e traumi remoti e prossimi; perciò siamo condannati a trascinarci dietro, dalla culla alla tomba, un Doppelganger, un fratello muto e senza volto, che pure è corresponsabile delle nostre azioni, quindi anche delle nostre pagine. Come è noto, nessun autore capisce a fondo quello che ha scritto, e tutti gli scrittori hanno avuto modo di studiare delle cose belle e brutte che i critici hanno trovato nelle loro opere che loro non sapevano di averci messe; molti libri contengono plagi, concettuali o verbali, di cui gli autori si dichiarano in buona fede inconsapevoli. E' un fatto contro cui non si può combattere: questa fonte di inconoscibilità e di irrazionalità che ognuno di noi alberga deve essere accettata, anche autorizzata ad esprimersi nel suo (necessariamente oscuro) linguaggio, ma non tenuta per ottima od unica fonte di espressione.
Non è vero che il solo scrivere autentico è quello che viene dal "cuore", e che in effetti viene da tutti gli ingredienti distinti dalla conoscenza che sono citati sopra. Questa opinione, del resto onorata dal tempo, si fonda sul presupposto che il cuore che "ditta dentro" sia un organo diverso da quello della ragione e più nobile di esso, e che il linguaggio del cuore sia uguale per tutti, il che non è. Lungi dall'essere universale nel tempo e nello spazio, il linguaggio del cuore è capriccioso, adulterato e instabile come la moda, di cui in effetti fa parte: neppure si può sostenere che esso sia uguale a se stesso limitatamente ad un paese e ad un'epoca. Altrimenti detto, non è un linguaggio affatto, o al più un vernacolo, un argot, se non un'invenzione individuale.
Perciò, a chi scrive nel linguaggio del cuore può accadere di riuscire indecifrabile, ed allora è lecito domandarsi a che scopo egli abbia scritto: infatti (mi pare che questa sia un postulato ampiamente accettabile) la scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo, e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto. Quando questo avviene il lettore di buona volontà deve essere rassicurato: se non intende un testo, la colpa è dell'autore, non sua. Sta allo scrittore farsi capire da chi desidera capirlo: è il suo mestiere, scrivere è un servizio pubblico, e il lettore volenteroso non deve andare deluso.
Questo lettore, che ho la curiosa impressione di avere accanto quando scrivo, ammetto di averlo leggermente idealizzato. E' simile ai gas perfetti dei termodinamici, perfetti solo in quanto il loro comportamento è perfettamente prevedibile in base a leggi più semplici, mentre i gas reali sono più complicati. Il mio lettore "perfetto" non è un dotto ma neppure uno sprovveduto; legge non per obbligo né per passatempo né per fare bella figura in società, ma perché è curioso di molte cose, vuole scegliere fra esse, e non vuole delegare questa scelta a nessuno; conosce i limiti della sua competenza e preparazione , ed orienta le sue scelte di conseguenza; nella fattispecie, ha volenterosamente scelto i miei libri, e proverebbe disagio o dolore se non capisse riga per riga quello che ho scritto, anzi, gli ho scritto: infatti scrivo per lui , non per i critici né per i potenti della Terra né per me stesso. Se non mi capisse, lui si sentirebbe ingiustamente umiliato, ed io colpevole di inadempienza contrattuale.
Qui occorre far fronte a un'obiezione: talvolta si scrive (o si parla) non per comunicare, ma per scaricare una propria tensione, o una gioia, o una pena, ed allora si grida anche nel deserto, si geme, ride, canta, urla.
Per chi urla, purché abbia motivi validi per farlo, ci vuole comprensione: il pianto e il lutto, siano essi contenuti o scenici, sono benefici in quanto alleviano il dolore.Urla Giacobbe sul mantello insanguinato di Giuseppe; in molte città il lutto gridato è rituale e prescritto. Ma l'urlo è un ricorso estremo, utile per l'individuo come le lacrime, inetto e rozzo se inteso come linguaggio, poiché tale, per definizione, non è: l'inarticolato non è articolato, il rumore non è suono. Per questo motivo, mi sento sazio delle lodo tributate a testi che (cito a caso) "suonano al limite dell'ineffabile, del non-esistente, del mugolio animale". Sono stanco di "densi impasti magmatici", di "rifiuti semantici" e di innovazioni stantie. Le pagine bianche sono bianche, ed è meglio chiamarle bianche; se il re è nudo, è onesto dire che è nudo.
Personalmente sono stanco anche delle lodi elargite in vita e in morte a Ezra Pound, che forse è pure stato un grande poeta, ma che per essere sicuro di non essere compreso scriveva a volte perfino in cinese, e sono convinto che la sua oscurità poetica aveva la stessa radice del superomismo, che lo ha condotto prima al fascismo e poi all'autoemarginazione: l'una e l'altro germinavano dal suo disprezzo per il lettore. Forse il tribunale americano che giudicò Pound mentalmente infermo aveva ragione: scrittore d'istinto, doveva essere un pessimo ragionatore, e lo confermano il suo comportamento politico ed il suo odio maniacale per i banchieri: ora, chi non sa ragionare deve essere curato, e nei limiti del possibile rispettato, anche se, come Ezra Pound, si induce a fare propaganda nazista contro il proprio paese in guerra contro la Germania di Hitler: ma non deve essere lodato né indicato ad esempio, perché è meglio essere sani che insani.
L'effabile è preferibile all'ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all'oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non- voler- essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro " mugolio animale" era terribilmente motivato: per Trakl, dal naufragio dell'impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande Guerra; per Celan, ebreo tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento, e dall'angoscia senza rimedio davanti alla morte trionfatrice. Per Celan soprattutto, perché è un nostro contemporaneo (1920-70), il discorso deve farsi più serio e responsabile.
Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata non solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L'oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell'inconscio: è veramente un riflesso dell'oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda lucidità di Fuga di morte (1945) al truce caos senza spiragli delle ultime composizioni. Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all'ultimo disarticolato balbettio, costerna con il rantolo di un moribondo, ed infatti altro non è. Ci avvince come avvincono le voragini, ma insieme ci defreuda di qualcosa che doveva essere detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci allontana. Io penso che Celan poeta debba essere piuttosto meditato e compianto che imitato. Se il suo è un messaggio , esso va perduto nel "rumore di fondo": non è una comunicazione , non è un linguaggio , o al più è un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire , ed è solo , come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno.
Del resto, parlare al prossimo in una lingua che egli non può capire può essere malvezzo di alcuni rivoluzionari, ma non è affatto uno strumento rivoluzionario: è invece un antico artificio repressivo, noto a tutte le chiese, vizio tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti gli imperi coloniali. E' un modo sottile di imporre il proprio rango: quando padre Cristoforo dice "Omnia munda mundis" in latino e fra Fazio che il latino non lo sa, a quest'ultimo, "al sentir quelle parole gravide d'un senso misterioso, e proferite così risolutamente… parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S'acquietò, e disse: 'Basta! Lei ne sa più di me'".
Neppure è vero che solo attraverso l'oscurità verbale si possa esprimere quell'altra oscurità di cui siamo figli, e che giace nel nostro profondo. Non è vero che il disordine sia necessario per dipingere il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo a cui siamo votati: crederlo è vizio tipico del nostro secolo insicuro. Finché viviamo, e qualunque sia la sorte che ci è toccata o che ci siamo scelta, è indubbio che saremo tanto più utili (e graditi) agli altri ed a noi stessi, e tanto più a lungo verremo ricordati, quanto migliore sarà la qualità della nostra comunicazione. Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice, e spande infelicità intorno a sé. Se comunica male deliberatamente, è un malvagio, o almeno una persona scortese, perché obbliga i suoi fruitori alla fatica, all'angoscia o alla noia.
Beninteso, perché il messaggio sia valido, essere chiari e inutili, chiari e bugiardi, chiari e volgari, ma questi sono altri discorsi. Se non si è chiari non c'è messaggio affatto. Il mugolio animali è accettabile da parte degli animali, dei moribondi dei folli e dei disperati: l'uomo sano ed intero che lo adotta è un ipocrita o uno sprovveduto, e si condanna a non avere lettori. Il discorso fra uomini, in lingua d'uomini, è preferibile al mugolio animale, e non si vede perché debba essere meno poetico di questo.
Ma, ripeto, queste sono mie preferenze, non norme.
Chi scrive è libero di scegliersi il linguaggio che più gli si addice, e tutto può darsi: che uno scritto oscuro per il suo stesso autore sia luminoso ed aperto per chi lo legge; che uno scritto non compreso dai suoi contemporanei diventi chiaro ed illustre decenni e secoli dopo.

2. Perché si scrive?
Avviene spesso che un lettore, di solito un giovane, chieda a uno scrittore, in tutta la semplicità, perché ha scritto un certo libro, o perché lo ha scritto così, o anche, più generalmente, perché si scrive e perché gli scrittori scrivono. A questa ultima domanda, che contiene le altre, non è facile rispondere: non sempre uno scrittore è consapevole dei motivi che lo inducono a scrivere, non sempre è spinto da un motivo solo, non sempre gli stessi motivi stanno dietro all'inizio ed alla fine della stessa opera. Mi sembra che si possano configurare almeno nove motivazioni, e proverò a descriverle; ma il lettore, sia egli del mestiere o no, non avrà difficoltà a scovarne delle altre. Perché, dunque si scrive?

1) Perché se ne sente l'impulso e il bisogno. E' questa, in prima approssimazione, la motivazione più disinteressata. L'autore che scrive perché qualcosa o qualcuno gli detta dentro non opera in vista di un fine; dal suo lavoro gli potranno venire fama e gloria, ma saranno un di più, un beneficio aggiunto, non consapevolmente desiderato: un sottoprodotto, insomma. Beninteso, il caso delineato è estremo, teorico, asintotico; è dubbio che mai sia esistito uno scrittore, o in generale un artista, così puro di cuore. Tali vedevano se stessi i romantici; non a caso, crediamo di ravvisare questi esempi fra i grandi più lontani nel tempo, di cui sappiamo poco, e che quindi è più facile idealizzare. Per lo stesso motivo le montagne lontane ci appaiono tutte di un solo colore, che spesso si confonde con il colore del cielo.

2) Per divertire o divertirsi. Fortunatamente, le due varianti coincidono quasi sempre: è raro che chi scrive per divertire il suo pubblico non si diverta scrivendo, ed è raro che chi prova piacere nello scrivere non trasmetta al lettore almeno una porzione del suo divertimento. A differenza del caso precedente, esistono i divertitori puri, spesso non scrittori di professione, alieni da ambizioni letterarie o non, privi di certezze ingombranti e di rigidezze dogmatiche, leggeri e limpidi come bambini, lucidi e savi, come chi ha vissuto a lungo e non invano. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Lewis Carroll, il timido decano e matematico della vita intemerata, che ha affascinato sei generazioni con le avventure della sua Alice, prima nel paese delle meraviglie e poi dietro lo specchio. La conferma del suo genio affabile si ritrova nel favore che i suoi libri godono, dopo più di un secolo di vita, non solo presso i bambini, a cui egli idealmente li dedicava, ma presso i logici e gli psicanalisti, che non cessano di trovare nelle sue pagine significati sempre nuovi. E' probabile che questo mai interrotto successo dei suoi libri sia dovuto proprio al fatto che essi non contrabbandano nulla: né lezioni di morale né sforzi didascalici.

3) Per insegnare qualcosa a qualcuno. Farlo, e farlo bene, può essere prezioso per il lettore, ma occorre che i patti siano chiari. A meno di rare eccezioni, come il Virgilio delle Georgiche l'intento didattico corrode la tela narrativa dal di sotto, la degrada e la inquina: il lettore che cerca il racconto deve trovare il racconto e non una lezione che non desidera. Ma appunto, le eccezioni ci sono, e chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell'allevamento del bestiame e dell'apicoltura. Non vorrei dare scandalo ricordando qui La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi, altro uomo di cuore puro che non si nasconde la bocca dietro la mano: non posa a letterato, ama con passione l'arte della cucina spregiata dagli ipocriti e dai dispeptici, intende insegnarla, lo dichiara, lo fa con la semplicità e la chiarezza di chi conosce a fondo la sua materia, ed arriva spontaneamente all'arte.

4) Per migliorare il mondo. Come si vede, ci stiamo allontanando sempre più dall'arte che è fine a se stessi. Sarà opportuno osservare qui che le motivazioni di cui stiamo discutendo hanno ben poca rilevanza ai fini del valore dell'opera a cui possono dare origine; un libro può essere bello, serio, duraturo e gradevole, per ragioni assai diverse per quelle per cui è stato scritto. Si possono scrivere libri ignobili per ragioni nobilissime, ed anche, ma più raramente libri nobili per ragioni ignobili. Tuttavia provo personalmente una certa diffidenza per chi "sa" come migliorare il mondo; non sempre, ma spesso, è un individuo talmente innamorato del suo sistema da diventare
impermeabile alla critica. C'è da augurarsi che non possegga una volontà troppo forte, altrimenti sarà tentato di migliorare il mondo nei fatti e non solo nelle parole: così ha fatto Hitler dopo aver scritto il Mein Kampf, ed ho spesso pensato che molti altri utopisti, se avessero avuto energie sufficienti, avrebbero scatenato guerre e stragi.

5) Per far conoscere le proprie idee. Chi scrive per questo motivo rappresenta soltanto una variante più ridotta, e quindi meno pericolosa, del caso precedente. La categoria coincide di fatto con quella dei filosofi, siano essi geniali, mediocri, presuntuosi, amanti del genere umano, dilettanti o matti.

6) Per liberarsi da un'angoscia. Spesso lo scrivere rappresenta un equivalente della confessione o del divano di Freud. Non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com'è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé.

7) Per diventare famosi. Credo che solo un folle possa accingersi a scrivere unicamente per diventare famoso; ma credo anche che nessuno scrittore, neppure il più modesto, neppure il meno presuntuoso, neppure l'angelico Carroll sopra ricordato, sia stato immune da questa motivazione. Aver fama, leggere di sé sui giornali, sentire parlare di sé , è dolce, non c'è dubbio; ma poche fra le gioie che la vita può dare costano altrettanta fatica, e poche fatiche hanno risultato così incerto.

8) Per diventare ricchi. Non capisco perché alcuni si sdegnino o si stupiscano quando vengono a sapere che Collodi, Balzac, e Dostoevskij scrivevano per guadagnare, o per pagare i debiti del gioco, o per tappare i buchi di imprese commerciali fallimentari. Mi pare giusto che scrivere solo per denaro sia pericoloso, perché conduce quasi sempre ad una maniera facile, troppo ossequente al gusto del pubblico più vasto e alla moda del momento.

9) Per abitudine. Ho lasciato ultima questa motivazione, che è la più triste. Non è bello, ma avviene: avviene che lo scrittore esaurisca il suo propellente, la sua carica narrativa, il suo desiderio di dar vita e forma alle immagini che ha concepite; che non concepisca più immagini; che non abbia più desideri, neppure di gloria o di denaro; e che scriva ugualmente, per inerzia, per abitudine, per "tener viva la firma". Badi a quello che fa: su quella strada non andrà lontano, finirà fatalmente col copiare se stesso. E' più dignitoso il silenzio, temporaneo o definitivo.

3. Scrivere un romanzo
Dopo trentacinque anni di apprendistato, e di autobiografismo camuffato o aperto, un giorno ho deciso di scavalcare l'argine e di provare a scrivere un romanzo, senza curarmi troppo della polemica in corso, se il romanzo sia vivo o morto, e, se vivo, sia in buona salute. Adesso che l'impresa è terminata, e il libro è stampato e in libreria, ho l'impressione gradevole di essere di ritorno da un viaggio esotico e, come tutti i reduci, provo il desiderio di raccontare le cose viste e di "far vedere le diapositive" agli amici. E' noto che qualche volta, a queste esibizioni non richieste, gli amici si annoiano; se sì, in questo caso non hanno che da voltare pagina.
Cosa si prova a scrivere cose d'invenzione? Scrivere di cose viste è più facile che inventare, e meno felice. E' uno scrivere-descrivere: hai una traccia, scavi nella memoria prossima o lontana, riordini i reperti (se ne hai talento), li cataloghi, poi prendi una sorta di macchina fotografica mentale e scatti: puoi essere un fotografo mediocre, o buono, o magari "artistico"; puoi nobilitare le cose che ritrai, o riportarle in maniera impersonale, modesta e onesta, o darne invece un'immaginedistorta, piatta, sfuocata, scentrata, sotto o sovraesposta, ma in ogni caso sei guidato, tenuto per mano dai fatti, hai terra sotto i piedi.
Scrivere un romanzo è diverso, è un superscrivere: non tocchi più terra, voli, con tutte le emozioni, le paure e gli entusiasmi del pioniere in un biplano di tela, spago e compensato; o meglio, in un pallone frenato a cui si sia tagliato l'ormeggio. La prima sensazione, destinata a ridimensionarsi in seguito, è quella di una libertà sconfinata quasi licenziosa. Puoi sceglierti l'argomento o la vicenda che vuoi, tragica fantastica o comica, lunare o solare o saturnina; puoi situarla in un tempo che sta tra il Primo Giorno della Creazione (od anche prima, perché no?) e l'oggi, anzi, il futuro più remoto, che ti è lecito modellare a tuo piacere. Puoi ambientare la tua storia dove vuoi; nel soggiorno di casa tua, nell'Empireo, alla corte di Tamerlano, nella stiva di un peschereccio, dentro un globulo rosso, in fondo a una miniera o in un bordello: insomma, in qualsiasi luogo tu abbia visto, o in luoghi sentiti descrivere, o letti, o visti al cinema, o in fotografia, o immaginati, immaginari, immaginabili, non immaginabili.
Tutta la Terra è tua anzi, il cosmo; e se il cosmo ti è stretto, te ne inventi un altro che faccia al caso tuo. Se obbedisce alle leggi della fisica e del buon senso, bene; se no va bene lo stesso, o magari anche meglio; in ogni cado non scatenerai nessuna catastrofe, tutt'al più qualche lettore pignolo ti scriverà per esprimere urbanamente la sua delusione o il suo dissenso. Insomma, a parte il tempo che avrai perduto, non corri rischi superiori a quelli dello studente che fa il compito in classe: alla peggio prenderai un brutto voto. Non è un bel mestiere?
Quanto ai personaggi, il discorso si fa complesso, su questo tema, il ménage a tre fra l'autore, il personaggio e il lettore, si sono scritti quintali di libri, ma essendo io ormai un addetto ai lavori, mi permetto di dire la mia, ossia di proiettare le mie diapositive. Anche per i personaggi si prova all'inizio l'impressione di una libertà senza limiti. In astratto, tu hai su loro un potere assoluto, quale nessun tiranno ha mai avuto sulla faccia della terra. Puoi farli nascere nani o giganti, puoi affliggerli, torturarli, ucciderli, resuscitarli; o donare loro la bellezza e giovinezze eterne, la forza e la sapienza che tu non hai, la felicità di ogni minuto (ma questa, sarai capace di descriverla senza annoiare il tuo lettore?), l'amore, la ricchezza, il genio. Ma solo in astratto: perché sei legato a loro più di quanto non appaia. Ognuno di questi fantasmi è nato da te, ha il tuo sangue, nel bene e nel male. E' una tua gemmazione. Peggio è una tua spia, rivela una parte, le tue tensioni, come quegli incastri di vetro che si usano per rivelare se la crepa di un muro è destinata ad allargarsi. Sono un tuo modo di dire "io": quando li fai muovere o parlare rifletti a quello che fai, potrebbero dire troppo. Forse vivranno più a lungo di te, perpetuando i tuoi vizi ed errori.
Veramente i personaggi di un libro sono creature strane. Non hanno pelle né sangue né carne, hanno meno realtà di un dipinto o di un sogno notturno, non hanno sostanza che di parole, ghirigori neri sul foglio di carta bianca, eppure puoi intrattenerti con loro, conversare con loro attraverso i secoli, odiarli, amarli, innamorartene. Ognuno di loro è depositario di certi elementari diritti, e sa farli valere. La tua libertà di autore è solo apparente. Se, una volta concepito il tuo homunculus, tu lo contrasti, se gli vuoi imporre un gesto avverso alla sua natura, o vietargli un atto che gli sarebbe congeniale, incontri una resistenza, sorda ma indubbia: come se tu volessi, comandare alla tua mano di toccare un ferro rovente, o un oggetto che ti (che le) ripugna. Lui, il non-esistente, è lì, c'è, pesa, spinge contro la tua mano: vuole e disvuole, silenzioso e testardo. Se tu insisti, intristisce. Si apparta, cessa di collaborare con te, di suggerirti le sue battute; perde corpo, diventa piatto, sottile, bianco. E' carta, e ritorna in carta. Anche per un altro verso la tua libertà d'invenzione è apparente. Allo stesso modo che impossibile trasformare una persona di carne in un personaggio, farne cioè una biografia obiettiva non distorta, così è impossibile eseguire l'operazione inversa, coniare un personaggio senza travasargli dentro, oltre ai tuoi umori d'autore, anche frammenti di persone che tu hai incontrate, o di altri personaggi.
La prima impossibilità è dimostrata da millenni di letteratura. La resa del ritratto scritto è sempre bassa, anche nei testi migliori: l'intera Odissea non basta a darci l'immagine di Ulisse, ma neppure nel romanzo di taglio classico, o nella biografia dichiarata, in cui l'autore si affanna a descriverti la statura del suo soggetto, il colore dei suoi capelli, occhi e carnagione, la sua corporatura, il suo parlare, ridere, camminare, gesticolare: neppure qui, mai, per essenziale insufficienza dei nostri mezzi espressivi, si arriva alla mimesi. Ci arrivano con migliore approssimazione il cinematografo e la televisione; infatti, le riprese filmate di persone scomparse ci commuovono in misura ben maggiore dei ritratti scritti. Ci turbano: colui che vediamo muoversi e parlare sullo schermo, davvero non è morto del tutto. E se gli ologrammici regaleranno una terza dimensione, il turbamento sarà tremendamente maggiore, farà pensare alla magia nera. Per uno scrittore, tentare di competere con questi mezzi è tempo perduto.
Ma altrettanto ferrea mi pare sia l'impossibilità di creare un personaggio dal nulla. Ho già detto che fatalmente l'autore vi trasferisce (sapendolo o non, volendolo o non, talora accorgendosene solo quando rilegge le sue pagine anni dopo averle scritte) una parte di sé; ma il resto, il non-sé, non è mai del tutto inventato: brulica di ricordi: anche questi, consapevoli o inconsapevoli, volontari o non. Il personaggio che credi ingenuamente di aver fabbricato nella tua officina si rivela una chimera, un mosaico a tasselli, di istantanee scattate chissà quando e relegate nel solaio della memoria. Un congelamento, insomma, che sarà tuo merito aver reso vivo e credibile; ma di quest'arte, di ricavare un organismo da un coacervo, non credo si possano dare regole certe.
Si possono tentare regole negative: non è necessario che il tuo personaggio sia virtuoso, né simpatico, né savio; neppure è necessario che sia coerente con se stesso, anzi, forse, è vero il contrario. Il personaggio troppo coerente è prevedibile, cioè noioso: non ha scatti, è programmato, non ha arbitrio. Dev'essere incoerente come tutti noi lo siamo, senza umore vario, sbagliare, perdersi, crescere di pagina in pagina, o declinare, o spegnersi: se rimane uguale a se stesso non sarà il simulacro di una statua, cioè un doppio simulacro.
Beninteso, al di sotto di questa incoerenza sta una profonda coerenza, ma definirla è al di là delle mie forze; se sia stata rispettata lo si sa dopo, a pagina scritta, e il segnale è dato dal sangue del lettore, che per qualche istante gira un po' più caldo e un po' più in fretta.

4. A un giovane lettore
Caro Signore,
spero che Lei mi perdonerà se alla Sua lettera del… rispondo pubblicamente, beninteso omettendo il Suo nome e quanto altro potrebbe rivelare la Sua identità. Tuttavia a beneficio di altri che si trovano nella Sua condizione, o in condizione simile, e che come Lei mi hanno scritto, mi trovo costretto a palesare qui almeno questo: che Lei ha ventisette anni, che vive in una piccola città, che ha compiuto senza eccessivi sforzi il Liceo Classico, e che ora ha trovato faticosamente un impiego modesto, che Le dà poco guadagno, una certa sicurezza e scarse gratificazioni.
Lei desidera scrivere, e più precisamente narrare; ed infatti scrive, ma vuole da me un consiglio e un indirizzo: come scrivere. Lei non mi pone, e non si pone, il dilemma fondamentale, cioè se scrivere o no, e così facendo mi mette fin dall'inizio in imbarazzo. Infatti, da quanto lei mi dice si desume che Lei si rappresenta il raccontare come un mestiere, mentre secondo me non lo è.
In Italia, oggi, ogni mestiere coincide con una garanzia: chi vive di scrittura, garanzie non ne ha. Di conseguenza, i narratori puri, quelli che ricavano di che vivere soltanto dalla loro creatività, sono pochissimi: non più di qualche decina. Gli altri scrivono a ore perse, dedicando il resto del loro tempo alla pubblicità, al giornalismo, all'editoria, al cinema, all'insegnamento o ad altre attività che con lo scrivere non hanno nulla in comune. Perciò Le raccomando in primo luogo, anzi, Le prescrivo, di tenersi caro il Suo impiego.
Se veramente Lei ha sangue di scrittore, il tempo per scrivere lo troverà comunque, Le crescerà intorno; e del resto, il Suo lavoro quotidiano, per quanto noioso, non potrà non fornirle le materie prime preziose per il Suo scrivere serale o domenicale, a partire dai contatti umani, a partire dalla noia stessa. La noia è noiosa per definizione, ma un discorso sulla noia può essere un esercizio vitale ed appassionante per il lettore: Lei che ha fatto gli studi classici certamente già lo sa.
Lei però salta questo bivio ed aspetta da me consigli pratici e specifici: i segreti del mestiere, anzi, del non-mestiere. Esistono, non lo posso negare, ma per fortuna non hanno validità generale: dico "per fortuna" perché se l'avessero, tutti gli scrittori scriverebbero allo stesso modo, generando così una mole di noia tale da vanificare qualunque tentativo di farla passare per leopardiana, e da far scattare per sovraccarico gli interruttori automatici dei lettori più indulgenti. Quindi mi dovrò limitare ad esporLe i miei segreti personali col rischio di costruirmi con le mie stesse mani il concorrente che, a dispetto della mia "introduzione", mi scaccerà dal mercato.
Il primo segreto è il riposo nel cassetto, e credo che abbia valore generale. Fra la prima stesura e quella definitiva, deve passare qualche giorno; per ragioni che ignoro, per un certo tempo l'occhio di chi scrive è poco sensibile al testo recente. Bisogna, per così dire, che l'inchiostro si sia asciugato bene; prima i difetti sfuggono: ripetizioni, lacune logiche, improprietà, stonature.
Un ottimo surrogato al riposo può essere costituito da un lettore-cavia, dotato di buon senso e buon gusto, non troppo indulgente: il/la coniuge, un amico/a. Non un altro scrittore: uno scrittore non è un lettore tipo, ha sue preferenze e fisime peculiari, davanti a un testo brutto è sprezzante, davanti a uno bello è invidioso. A questo precetto del riposo sto contravvenendo in questo stesso momento, perché appena scritta questa lettera la imposterò: così Lei potrà verificarne la validità. Dopo la maturazione, che assimila uno scritto al vino, ai profumi ed alle nespole, viene l'ora di cavare dal pieno. Quasi sempre ci si accorge che si è peccato per eccesso, che il testo è ridondante. Ripetitivo, prolisso: o almeno, ripeto, così capita a me. Inguaribilmente, nella prima stesura io mi indirizzo ad un lettore ottuso, a cui bisogna martellare i concetti in testa. Dopo lo smagrimento, lo scritto è più agile: si avvicina a quello che, più o meno consapevolmente, è il mio traguardo, quello del massimo di informazione con il minimo ingombro.
Noti che al massimo di informazione si può arrivare per diverse vie, alcune molto sottili; una, fondamentale, è la scelta tra i sinonimi, che quasi mai sono equivalenti tra loro. Ce n'è sempre uno che è "più giusto" degli altri: ma spesso bisogna andarlo a cercare, a seconda del contesto, nel vecchio Tommaseo, o fra i neologismi del Nuovo Zingarelli, o fra o fra i barbarismi stupidamente vietati dai tradizionalisti, o addirittura fra i termini di altre lingue; se il termine italiano manca, perché fare acrobazie?
In questa ricerca, mi pare che sia importante mantenere viva la consapevolezza del significato originario di ogni vocabolo; se Lei ricorda ad esempio che "scatenare" voleva dire "liberare dalle catene", potrà usare il termine in modo più appropriato ed in sensi meno frusti. Non tutti i lettori si accorgeranno dell'artificio, ma tutti percepiranno almeno che la scelta non è stata ovvia, che lei ha lavorato per loro, che non ha seguito la linea della massima pendenza.
Dopo novant'anni di psicoanalisi, e di tentativi riusciti o falliti di travasare direttamente l'inconscio sulla pagina, io provo un bisogno acuto di chiarezza e razionalità, e credo che la maggior parte dei lettori la pensino nello stesso modo. Non è detto che un testo chiaro sia elementare; può avere vatri livelli di lettura, ma il livello più basso, secondo me, dovrebbe essere accessibile ad un pubblico vasto. Non abbia paura di fare un torto al suo es imbavagliandolo, non c'è pericolo "l'inquilino del piano di sotto" troverà comunque il modo di manifestarsi , perché scrivere è denudarsi: si denuda anche lo scrittore più pulito. Se denudarsi non Le piace, si accontenti del Suo lavoro attuale. Dimenticavo di dirLe che, per scrivere, bisogna avere qualche cosa da scrivere.
Gradisca i migliori saluti.

Suo
Primo Levi

 
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